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Il programmatic advertising e la risposta alla domanda fondamentale

Negli ultimi tempi ho concentrato il mio interesse sul programmatic advertising, un panorama di comunicazione che mi risulta essere poco conosciuto e molto utilizzato.

Programmatic Advertising è un termine ombrello al di sotto del quale stanno aziende, filiere, tecnologie, processi, consulenti. Sottoinsieme del data-driven advertising, il programmatic riguarda la compra vendita di spazi pubblicitari digitali in tempo reale mediante aste (anche, ma non solo. In realtà, come insegna il corso di IAB con il quale mi sono certificato specialist, è possibile comprare e vendere in programmatic anche direttamente o in asta privata, non solo in asta pubblica in tempo reale).

L'ecosistema europeo del programmatic advertising
L’ecosistema europeo del programmatic advertising. Vagamente articolato, che dite?

Ma cosa intendo quando dico che il programmatic advertising è un sottoinsieme del data-driven adv? 

Il mondo della pubblicità e del marketing guidato dai dati è ormai un dato di fatto. Sappiamo bene di come Facebook, Google e Amazon siano i più grossi editori, cioè ospitanti spazi pubblicitari, ma anche detentori dei dati, banditori delle aste e, soprattutto, responsabili delle analisi (in quanto sono loro che possiedono le profilazioni degli utenti e non ci consentono di fare analisi approfondite).

Il programmatic advertising riguarda tutta la pubblicità guidata dai dati che trova espressione nelle pubblicità della rete display, posizionabile su siti e app di editori e il cui processo consente anche ad attori terzi rispetto alle grandissime piattaforme di utilizzare i dati per migliorare gli annunci pubblicitari (e valutare il marketing, ma anche, in ultima istanza e ponendo ai sistemi le domande giuste, le strategie di medio e lungo periodo).

Per farla semplice: avete presente tutti quei video che vi disturbano* quando cercate di leggere un articolo di un quotidiano on-line? Quei video sono distribuiti in programmatic advertising.

Ecco che il processo di profilazione dei segmenti di mercato, individuazione del target, distribuzione intelligente e iterativa della creatività (anche in questo caso guidata e ottimizzata attraverso i dati) è reso possibile da apposite piattaforme, chiamate DSP (Demand Side Platform): sono le piattaforme che profilano il pubblico e comprano spazi.

Mentre il processo di vendita degli spazi, che può interessare qualsiasi produttore di contenuti, è gestito da piattaforma chiamate SSP (Sell Side Platform): il software che vende gli spazi in un Ad-Exchange, un software che è una vera e propria borsa valori degli spazi pubblicitari. Negli ad-Exchange avvengono infatti le aste che attribuiscono uno spazio ad un compratore.

La nascita e la crescita impetuosa del programmatic advertising avrà effetti potenti su tutta la filiera della comunicazione e della pubblicità.

Ad oggi infatti, ricapitolando, abbiamo un brand che vuole pubblicizzare un prodotto o un servizio; il brand si rivolge all’agenzia creativa che usa un centro media per comprare spazi pubblicitari profilati. Il centro media, con la sua DSP, individua l’inventario su cui far uscire gli annunci, quindi la concessionaria di pubblicità che glielo vende, mediante una SSP e la monetizzazione va verso il produttore di contenuti (o l’editore). Tutto chiaro?

La mia opinione è che, come quasi sempre accade con il digitale, assisteremo ad una disruption strepitosa del mercato, che lo renderà molto più fluido e più efficiente (lasciando sulla strada carcasse spolpate) e lo razionalizzerà pesantemente. Il processo è già iniziato, tra l’altro, si vedano le difficoltà identitarie delle agenzie creative degli ultimi anni, in un panorama dove marketing e comunicazione sono sempre più intimamente legate.

Ogni soggetto della filiera rappresentata, in modo un po’ buffo, lì sopra, ha già la possibilità di cercare le risposte corrette ai problemi aziendali di qualsiasi tipo. E il processo di ricerca è continuo. Tra le piattaforme software di cui ho parlato sopra, non ne ho menzionata, infatti, una categoria: la DMP (Data Management Platform). Sono piattaforme software deputate all’analisi dei dati, di tutti i dati possibili. Alimentate anch’esse dall’intelligenza artificiale, sono lo strumento con il quale le informazioni collegate alle campagne pubblicitarie digitali diventano valore, soprattutto quando sono messe a sistema con le informazioni di produzione, di logistica, degli altri settori aziendali (un mio sogno: correlare i dati di un piano formativo strategico con i miglioramenti di produttività, cioè dimostrare che la formazione continua in azienda è necessaria e produce valore misurabile).

Ho già detto del perché ritengo le AI logicamente adatte a modellare e conoscere pezzi di realtà, ma qui voglio introdurre una considerazione che giudico cruciale.

Le intelligenze artificiali odierne, infatti, sono molto brave a fare una cosa: rispondere con una o più probabilità statistiche ad una domanda precisa.

Provo a fare un esempio: quante probabilità ci sono che un utente bianco, maschio, non laureato del Michigan sia propenso a votare Donald Trump? Il fatto che questo maschio, bianco e non laureato del Wisconsin sia anche un appassionato di Harley Davidson alza o abbassa questa probabilità? Con questa risposta Cambridge Analytica ha vinto un pezzo delle presidenziali del 2016.

La macchina per la pasta fresca Imperia
La macchina per la pasta fresca Imperia

Sento spesso le lamentele degli imprenditori: hanno provato il data-driven e il programmatic advertising senza ottenere i risultati promessi dai venditori vari. Certo, è ovvio. Perché vendere una piattaforma e una campagna non è fare data-driven marketing. E’ fare una campagna. E’ usare una piattaforma. Il data-driven consente di rispondere alle domande, e creare domande migliori da fare ai sistemi: durante questo percorso tutto viene reso passo dopo passo più efficiente. Serve pazienza, attenzione, cura. Se si cerca di usare il data-driven come la macchina Imperia per la pasta, si sta facendo un grave errore.

Ricordate qual è la risposta alla domanda fondamentale? 42.

Il programmatic advertising può essere una risposta se avete formulato correttamente la domanda, se avete individuato il problema, in modo preciso, sintetico, comunicabile, valorizzabile.

Adams aveva capito tante cose: ne ho già parlato, ma più approfondisco temi di fisica e AI più ritrovo le sue parole e le sue intuizioni. Non per niente il modello necessario per rispondere alla domanda che riguarda tutte le cose è grande quanto la realtà che cerca di rappresentare, e quindi inutile sotto il profilo della conoscenza: grazie, Guida Galattica. E grazie Douglas che mi permetti di capire come anche il data-driven advertising e il suo figlio libero e indipendente programmatic siano inutili se non correttamente indirizzati.

Le AI rispondono bene a domande precise. Rispondono male a domande vaghe. Così anche quelle pubblicitarie. Questo ci dice che oggi c’è un enorme spazio per professionisti capaci e di visione. Le AI incrementano i posti di lavoro di qualità, vien da dire guardando, guarda poi il caso, i dati. Per ottenere buoni risultati dobbiamo imparare a guardare il mondo con il rigore dei modelli (incorporando le pratiche della ricerca scientifica all’interno dei processi aziendali) e ponendo loro le domande giuste, nel giusto ordine, usando la logica con disciplina. Lavorare insieme alle AI, con la pazienza di chi è certo di non sapere, ancora, le risposte. Ma con la determinazione di chi sta preparando le domande giuste.

E’ una attitudine necessaria, sia per il data scientist che sta creando le migliori AI, che per il programmatic marketer che deve posizionare al meglio il marchio del suo cliente. Il digitale sta sbriciolando confini e limiti, ruoli e settori. Ora tocca a quel mercato che il digitale stesso aveva fatto nascere e non tutti sembrano pronti ad affrontare l’ennesima disruption.

*Rimando ad un articolo successivo: il programmatic e il data-driven disturbano quando la profilazione non è corretta, quando i dati di comportamento non sono analizzati o raccolti con dovizia, quando la creatività non è curata o iterata sulla base dell’uso che ne fanno gli utenti. Fare buona automazione in pubblicità è possibile. Ci arriveremo.

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