Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare le intelligenze artificiali

Le AI e i Big Data come espressione di un nuovo metodo scientifico

Le reti neurali aumentano le possibilità dell’intelligenza umana?

Mi sono iscritto a Scienze della Comunicazione a Bologna, nel ’99, quando ancora non si parlava di Big Data, principalmente per due ragioni: Il Pendolo di Focault di Umberto Eco e un esame opzionale del quinto anno, Sistemi Esperti e Intelligenza Artificiale.

Da vecchio cyberpunker, pensavo di arrivare alle AI tramite l’università, convinto che lo studio del linguaggio fosse fondamentale per avvicinarsi ad esse. D’altra parte lo stesso Eco, nel Pendolo, giocava con le ricombinazioni al computer, ed era solo il 1988 (“I templari c’entrano sempre”, “Minnie è la fidanzata di Topolino”).

Era troppo presto: la scellerata riforma dell’Università (con il passaggio alla triennale) e la scarsa attenzione alle intelligenze artificiali (che rinacque solo nel 2006, a Toronto, grazie alla determinazione di un vecchio ricercatore e alla nuova potenza computazionale delle macchine) spazzarono via ogni velleità. Presi altre strade.

La vita poi fa capitare un sacco di cose, e ci si dimentica delle vecchie passioni.

Per esempio, io ne avevo una, bruciante, che è durata dai 12 ai 17 anni: amavo la fisica, in particolare la fisica di frontiera (per il poco che potevo capirne, ma di certo imparai con un simulatore di centrali nucleari che rallentare artificialmente l’inerzia delle turbine per risparmiare combustibile non è una buona idea).

Accade poi, nel settembre 2015, che l’uomo riesca ad osservare le onde gravitazionali: una delle più grosse, significative e visibili prove che il modello mentale di Einstein funziona. Non solo le sue teorie, ma proprio il principio per il quale il modello matematico, se tiene, viene dimostrato dai fatti reali (una sorta di ribaltamento, rimettendolo in piedi, del metodo sperimentale classico).

Da lì per me è una nuova corsa: la fisica sboccia di nuovo, nel mondo e nella mia vita. Comprendo che l’universo ci parla, e la sua lingua è la matematica: che ironia, per uno come me, che sulle lingue naturali (e visive) aveva costruito la propria identità intellettuale.

C’è un magnifico documentario di BBC, The Code, che racconta la matematica nascosta nella natura. Ci sono un paio di ottime idee, lì dentro: la prima è che la natura sia inerziale, pigra, efficiente, sceglie sempre la strada più veloce per raggiungere un risultato. La seconda, molto intrigante, è che spesso l’uomo, se non è preso come individuo, ma come folla, segue principi analoghi.

I modelli matematici funzionano per spiegare la natura. Ma, come umani, facciamo parte della natura. Una parte del nostro comportamento è spiegabile attraverso dati e modelli. Nuovi dati arrivano, i modelli matematici si adattano: più di ogni altri dispositivo intellettuale sono in grado di spiegare pezzi di realtà, brandelli di comportamento.

I modelli sono in grado di prevedere l’inerzia, e devono essere adattati di fronte a cambiamenti importanti: nulla è scontato, stabile, eterno, tutto è cambiamento.

Il mio atto di fede, parziale, è qui. La fiducia che i modelli possano spiegare (e in parte prevedere) anche quell’incertezza che il fatto stesso di essere umani produce, ma che non è aliena alla natura, anche se molto improbabile.

L’imperfezione, il caso. Douglas Adams lo chiamava “motore a improbabilità”. Ci era arrivato molto prima di me, a capire come funzionava l’uomo: inerziale come la natura, salvo alcuni eventi altamente improbabili: il big bang e il brodo primordiale, la scoperta del fuoco e il linguaggio per insegnarlo.

La matematica è il linguaggio meno imperfetto che abbiamo per descrivere la realtà. E i modelli, in massima parte, funzionano.

Soprattutto quando faticano: quando ci provano, si avvicinano al risultato, scoprono che qualcosa non va, si adattano, si piegano.

Si incorpora l’incertezza nel progresso.

Si usano i dati, si misurano le cose. E, in un intervallo di confidenza che spesso è del 95%, ci si prende, praticamente sempre.

Migliorano i dati, migliorano i modelli. Iniziamo a prevedere piccole porzioni di futuro.

E possiamo farlo perché il tempo non esiste. L’ha capito Einstein, me lo ha spiegato Rovelli (insieme all’accettazione attiva che il cambiamento rende impossibile una conoscenza eterna).

Se il tempo non esiste, e siamo prossimi ad un buco nero, è tutto informazione, le dimensioni cambiano, la realtà si piega alle leggi della matematica e nuove matematiche devono essere scoperte per descriverla.

Da quando abbiamo a disposizione una enorme quantità di dati, per varietà, velocità e volume e abbastanza potere di calcolo per applicarci matematica, abbiamo ritrovato le intelligenze artificiali. Cioè l’applicazione di una qualche sorta di modello matematico ai dati, realizzata per rispondere ad una domanda che nella maggior parte dei casi riguarda la probabilità che un evento si realizzi o meno.

Un evento: di nuovo il linguaggio unisce uomo e fisica, natura e improbabilità.

Siamo appena all’inizio.

Se saremo bravi e accoglieremo il cambiamento, sarà bellissimo: sarà la realizzazione della visione di Musk, uomini liberi da attività di basso livello, come il bisogno di memorizzare (da cui le boutade di Elon sul 420) e quello di sostentarsi (da cui il poter sognare bigger than AI).

Non siamo ancora arrivati alle complessità di Invernomuto e Pugnourlante (se amate le AI e non avete letto Neuromante… cosa state aspettando?): ma pensate davvero che l’uomo sia molto di più della somma di singole e piccole intelligenze specifiche?

Io no. Anzi. Quando riusciranno/riusciremo a capire che piccole intelligenze verticali possono connettersi e lavorare insieme, avremo la singolarità tecnologica: uno scenario che ricorda tremendamente il Lovercraft dell’incipit de Il Richiamo di Cthulhu:

Ritengo che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana a mettere in correlazione tutti i suoi contenuti. Viviamo su una placida isola di ignoranza nel mezzo del nero mare dell’infinito, e non era destino che navigassimo lontano. Le scienze, ciascuna tesa nella propria direzione, ci hanno finora nuociuto ben poco; ma, un giorno, la connessione di conoscenze disgiunte aprirà visioni talmente terrificanti della realtà, e della nostra spaventosa posizione in essa che, o diventeremo pazzi per la rivelazione, o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di un nuovo Medioevo.

Le connessioni impossibili sono materia da neural network, hanno a che fare col deep learning e possono essere definite

come una cultura aliena che sviluppa la propria matematica, una matematica che rende possibili cose come i viaggi nel tempo.

Siamo agli inizi di un meraviglioso viaggio. E forse abbiamo davvero la data di nascita di questa nuova umanità. Era il 1905, e per la prima volta la scienza si consolidava a partire da una fantasia.

Esperimenti mentali, li chiamava Albert. Pensate a cosa potrebbe fare, una testa come quella, con l’aiuto delle AI.

Sì, il viaggio è appena iniziato. E no, le intelligenze artificiali non mi fanno paura.

Le folle irrazionali, mi fanno paura. E gli uomini che le aizzano, mi spaventano. Non le AI.

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